Conoscendo la tradizione locale vigente, devo subito fare una rettifica. Il nome corretto di questo piatto della tradizione della città di Catanzaro è ‘u Morzeddhu catanzarisa, l’illustrissimo! Avendo esperienza del luogo aggiungo che questo piatto crea appartenenza e insieme dipendenza, perché il Morzello non è un cibo ma un vessillo della cultura locale, un comune denominatore imprescindibile, un simbolo di appartenenza trasversale ai ceti sociali, una sostanza psichedelica che “fa ballare” un intero popolo intorno intorno a questo piatto.
Sempre la tradizione esige che il Morzello venga mangiato nella pitta catanzarese, altra tipicità culinaria locale ossia un pane a forma di ciambella dalla forma stretta e senza mollica. La tradizione vuole che a Catanzaro il Morzello venga consumato durante le prime ore del mattino, diventando lo spuntino di studenti, operai, ma anche baroni, cavalieri e signorine fino ai giorni nostri di gente cool e radical chic.
Ricordo ancora le vacanze calabresi da piccolo quando mio padre con i suoi amici provenienti da varie parti d’Italia (quasi tutti chiaramente emigrati ma non solo) si alzavano la mattina presto per “salire” in città, armati di entusiasmo come se dovessero affrontare la battaglia finale.
Ciò che succedeva dopo non lo sò ma dopo qualche ora ritornavano verso il mare satolli, felici e, per ritornare al concetto di psichedelia, sballati di sapore.
Una minoranza esigua consuma il Morzello nel piatto (come se fosse uno spezzatino), ma dalla pitta non si sfugge facilmente. E allora ecco che scatta il rituale: bisogna preparare la pitta, dividendola in quattro porzioni uguali, ogni pezzo va tagliato a libretto ed aperto evitando che si apra completamente.
A questo punto bisogna immergere i due lati di ogni trancio di pitta nel Morzello ed in seguito si riempie facendo attenzione ad imbottirla con tutte le varie parti che compongono il Morzello. La pitta dovrà essere piena e ben inzuppata.
Ma cosa contiene questo Morzello di così speciale? Frattaglie di vitello o meglio, quello che si trovava del vitello! Siamo nel pieno della cultura gastronomica del quinto quarto, ossia tutto quello che non fa parte dei quattro tagli definiti “nobili”. Un tempo erano queste le pietanze che imbandivano le tavole dei nostri antenati, di quelli che la carne “buona” non potevano permettersela. Alle frattaglie si aggiunge semplicemente acqua, concentrato di pomodoro, peperoncino piccante, sale, alloro e origano.
Un tempo le putiche, le osterie del centro storico, esponevano fuori dal locale la tiana, un’enorme pentola in cui lasciavano cuocere la trippa lentamente, che con il suo profumo invadeva l’intera strada. Oggi questa tradizione è scomparsa, ma in diverse trattorie della zona è possibile gustarlo preparato secondo il procedimento indicato dal Disciplinare DE.C.O., una sorta di carta di identità dell’alimento che lo lega al luogo di nascita, per salvaguardarne la produzione e farlo conoscere all’esterno.
Forse è una mia sensazione ma mi pare che nella città di Catanzaro stiano aumentando i luoghi che propongono nuovamente questo piatto, forse sulla scia dello street food o semplicemente la riscossa della cucina povera che diventa gourmet. Un ritorno al mondo contadino e rurale fatto di piatti semplici e genuini ma anche gustosi e saporitissimi, sempre più ricercati e riproposti anche da ristoranti blasonati.
Esiste anche una variabile al Morzello Catanzarese. Era ed è in uso che il giorno del Venerdì Santo si porti in tavola il Morzello di Baccalà. Il motivo è molto semplice, per tradizione durante la Quaresima e in particolare durante il Venerdì Santo non si mangia carne.
Chef Rubio, nel suo Unti e bisunti, ha portato in tv questo piatto all’interno di una puntata esilarante. Vi lascio al video (dal 12esimo minuto) per scoprire segreti, parole, gesti di questo piatto della tradizione catanzarese, un viaggio, attraverso i sapori, nella città capoluogo della Calabria. Città che tra l’altro ha dato origine al sottoscritto. 😉