“Quando lei mangia un singolo fagiolo prende parte a tutte le esperienze a cui il fagiolo è stato sottoposto. Pensare alla vita di un fagiolo è esattamente come contemplare la nostra esistenza”: così parlava lo scrittore Durian Sukegawa, autore de Le ricette della signora Tokue, in cui si raccontava la ricerca del dorayaki perfetto.
Ma cos’è il dorayaki? “Sembra un pancake ma non lo è! “, esclama Emi Iwato, la chef che ogni giorno cucina i piatti della tradizione giapponese presso la residenza dell’ambasciatore del Giappone a Roma mentre dimostra come si prepara uno dei dolci più popolari, il dorayaki appunto, che oltre a essere l’ossessione del protagonista del libro di Sukegawa è anche lo spuntino preferito di Doraemon, caposaldo dell’animazione del Sol Levante. La frase della chef non è banale come potrebbe sembrare: in Giappone molte cose sembrano ciò che non sono. Non a caso l’atto stesso di mangiare è considerato un’esperienza spirituale e questo, sicuramente, rappresenta una piccola parte della fascinazione per il cibo giapponese.
Ora, dopo sushi e sashimi, anche la pasticceria giapponese sta conquistando l’Italia. Tanto che, dopo Milano, dove esistono già alcuni appuntamenti fissi per gli appassionati come Basara, il ristorante-pasticceria che accanto a piatti fusion serve anche dessert di alto livello come i daifuku (palline di riso glutinoso, spolverati di mais o fecola di patate e farciti con pezzi di frutta o altri ripieni) o la brioche al mochi gelato, anche Roma ha ceduto all’avanzata del Giappone più dolce: Hiromi Cake, nel quartiere Prati, è un tributo al wagashi, la più antica tradizione dolciaria nipponica che si contrappone allo yogashi, ovvero la tradizione Occidentale, che i giapponesi comunque amano moltissimo e che reinterpretano secondo i propri gusti. A sua volta il wagashi ha diverse forme.Tra le più raffinate ci sono i dolci namagashi (vere opere d’arte che riproducono negli ingredienti, nelle forme e nei colori, i motivi che caratterizzano le stagioni) e gli higashi ( blocchi di zucchero e farina di riso con particolari decorazioni realizzate con una piccola spatola di bambù, come farebbe un vero scultore). Entrambi si utilizzano per la cerimonia del tè e non sono assolutamente semplici da fare. “Alla portata di tutti invece — spiega la chef Iwato — ci sono sicuramente i citati dorayaki ma anche le torte alla farina di riso e frutta secca dell’Hokkaido oppure al tè verde in polvere, il matcha”. Un po’ più complessi sono invece i fantastici dango, anch’essi spesso protagonisti di manga e anime, simili al mochi ma più collosi. Si tratta di spiedini il cui impasto deve avere una consistenza vicina a quella del “lobo dell’orecchio”. Ne esistono molte varietà: anko, ovvero ripieni della stessa pasta di fagioli rossi dei dorayaki, goma ai semi di sesamo ( può essere sia salato che dolce), con salsa mitarashi.
Infine, ma non ultimo, c’è il mochi, uno dei dolci più diffusi, una sorta di polpetta di riso glutinoso che può essere consumato da solo a qualsiasi ora. Dietro l’apparente semplicità, la sua realizzazione è estremamente complessa se si prepara nel modo tradizionale anche se ormaiesistono macchinari in grado di triturare e impastare il riso che ne semplificano la fattura. Nonostante la pasticceria giapponese abbia origini antiche, il gusto, per gli occidentali, non è così ovvio: mai troppo zuccherata e di una consistenza difficile da associare a qualsiasi nostro prodotto. Gommoso? Soffice? Scioglievole? Spiegarlo è complicato. Come per il tè anche i dolcetti, dalle dimensioni sempre contenute, graziosi all’aspetto, come minute opere d’arte e d’ingegno, possiedono in alcuni casi il “ quinto gusto”, l’umami, che si trova immaginariamente al centro tra dolce, salato, amaro e aspro. È proprio il caso di dire, dunque, che i dolci giapponesi “non sono quello che sembrano”.
Fonte: Repubblica Sapori